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Repubblica democratica del Congo, novembre 2022
Il mese prossimo compiamo un anno qui. E’ insolito che, dopo sedici anni di missione, possa tornare a festeggiare il primo. Pensandoci bene però, forse è così per molti avvenimenti della nostra vita e non ce ne rendiamo conto. Pessimisti di natura, ci viene meglio ricordare il tempo scivolato via per l’assenza di qualche caro: il primo anno senza mamma, il terzo senza papà e così dicendo. Sarebbe bello se, nei momenti di bassa marea, potessimo sorridere alla nudità della sabbia luccicante e, guardandoci indietro, gioire delle impronte lasciate, dei calchi delle nostre cadute e rialzate, delle svariate sagome che accompagnano le nostre. Renderci conto che non camminiamo soli, è quanto ci basta per affrontare la prossima mareggiata. Ci sono amicizie, incontri spesso casuali, inattesi, che ti cambiano la vita; persone che condividono con te un ideale, che lottano come te contro una malattia, un’ingiustizia sociale, o che ci sono e basta. Esser-ci. Essere-noi. Essere-dentro. Perché ora ci sei, ma tra qualche minuto potresti non essere più. Me lo insegnano le persone con cui vivo, quelle vulnerabili, non necessariamente povere; basti pensare a quelle che abitano in Paesi insicuri, di guerra, o alla periferia delle grandi città, a quelle di questa piccola regione di un immenso Congo, martoriata di violenze inaudite e inudite.
Il nostro villaggio è sicuro, per fortuna, per questo rifugio di quanti scappano dalle fiamme date in odio alle loro vite, alla loro storia, al loro futuro senza una ragione di fondo. Non c’entrano né religione né diversità etnica, solo il controllo dei territori dal sottosuolo ricco di oro, diamanti, coltan, gas, … coi quali altri popoli si arricchiranno. Nel cuore di Aru, questo il nome del nostro paesotto di frontiera con la vicina Uganda, c’è un altro porto sicuro: il complesso scolastico delle madri canossiane che, dalla materna alle superiori, ospita circa 2300 studenti. Per le ragazzine dagli undici anni in su, c’è la possibilità di vivere l’esperienza collegiale per meglio prepararsi agli esami o per evitare le distrazioni che la strada propone. Quest’anno, sono una settantina a condividere compiti, pasti, dormitori, preghiera e giochi. Una delle suore è loro responsabile, e si preoccupa, non solo di coordinare le varie attività, ma anche di farsi loro vicina, di ascoltare i loro problemi a volte comuni a tutte le adolescenti, a volte causa di ferite tanto profonde da non riuscire ad emergere da sole. La maggior parte di queste giovinette proviene da famiglie benestanti, che investono sulla loro formazione. Eppure, nonostante le possibilità economiche, non tutte stanno bene. Anche i ricchi, spesso, devono fare i conti con la povertà, quella che non sparisce sotto le banconote né si nasconde dentro un frigorifero pieno, ma oscura gli sguardi facendo chinare la testa sul cuore dolente.
Quando ho un’ora di tempo, mi piace scaricare stanchezza e pensieri al campo sportivo del liceo, correndo. E’ un’occasione per fare due parole con alcune di loro, quelle libere da impegni, che prontamente si uniscono per fare qualche giro. Jeannine ci segue con lo sguardo, sorridendo. Lei non può correre, a malapena riesce a camminare con le sue lunghe gambe malformate dalla poliomielite. I discorsi e i pensieri delle più taciturne ricadono, però, ancora su Rachele; troppo recente la sua scomparsa, viva negli occhi delle compagne la sua figura snella e irrequieta. Una ragazzetta di quindici anni sveglia, dinamica, di quelle che noti perché rompono le fila della vergogna fermandoti mentre passi, solo per conoscerti. Brava a scuola, al suo quarto anno come interna del collegio, era conosciuta e amata da tutte le madri, anche quelle che non si occupano del liceo.
Aveva tutto quello che desiderava: vacanze a Kampala, telefono, un’auto su cui viaggiare e cene al ristorante. La famiglia che l’aveva adottata le voleva bene e, soprattutto il papà, la trattava con un riguardo particolare. Tutto questo la consolava, ma non la rendeva felice. C’era qualcosa nel profondo del suo cuore che la tormentava, che non la lasciava libera di godere di tutto il bene intorno a lei. Appena nata, la sua mamma biologica ha cercato di ucciderla gettandola nel buco della toilette. Scampata alla tragedia, è stata affidata ad una nuova e vera famiglia che l’ha cresciuta come fosse una propria figlia. Nel tempo però, la madre ha cercato più volte di strapparla a quella che era la sua nuova vita, lacerando in continuazione il piccolo cuore già dilaniato. Non parlava mai dei suoi sentimenti, delle sue emozioni, di quello che provava. Nonostante fosse amica di tutti, non era ancora riuscita ad avere una migliore amica, una persona con cui parlare e sfogarsi senza paura. Le madri conoscevano la sua storia, con loro era aperta e dialogava serenamente ma senza andare mai troppo in profondità. Chissà com’era gonfio il suo cuoricino, quella domenica pomeriggio di fine ottobre quando, insieme alle amiche, si è messa a giocare a palla, come spesso faceva nel tempo libero. Gli schiamazzi, le risa, la sfera di gomma che rimbalza di mano in mano, poi l’affaticamento, il riposo su un gradino della Direzione, la richiesta di un goccio d’acqua e niente più. Nel panico generale, la corsa su una motocicletta al vicino ospedale; quando arriva, il suo corpo atletico è privo di vita. Arresto cardiaco.
Poche ore dopo ci ritroviamo insieme agli insegnanti e alle suore, per pregare con le ragazze del collegio, straziate dal dolore e, alcune, sotto shock, mentre Rachele sta viaggiando verso il villaggio della famiglia a bordo di un’ambulanza. Mi chiedo: in che misura ci sono stata io per lei? In che modo ci sono per le persone che incontro? Esisto perché respiro oppure la mia presenza è un valore aggiunto alla vita degli altri? Se fossi stata io al posto suo, avrei lasciato tutti contenti di aver fatto la mia conoscenza oppure no?
Questa ragazzina, con la sua storia, ha risvegliato in me la voglia di esserci, di esserci davvero, come presenza significativa, come appoggio, come scoglio, come bastone, come cuscino, come la figura nascosta e silenziosa di San Giuseppe, patrono della nostra scuola.
Non permettete che le persone che attraversano la vostra vita se ne vadano senza avervi lasciato qualcosa, un insegnamento, un avvertimento. Nessuno passa per caso e nessuno se ne va per sempre.
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